“L’ideologia Colorblind [daltonica] è una forma di razzismo” (Monnica T Williams Ph.D., 2011 )

“Colorblind Ideology Is a Form of Racism” [cliccare sul titolo per accedere all’articolo in lingua originale / click on the link for the article in the original language] 

L’ideologia “Colorblind” [daltonica] è una forma di razzismo

Un approcio “colorblind” ci permette di negare le differenze culturali che ci mettono a disagio

Cecità significa non essere in grado di vedere.

Che cosa è “colorblindness” razziale [daltonismo razziale]?

Discutere di questioni razziali mette spesso a disagio e le discussioni sono piene di stress e polemiche. Molte idee sono state avanzate per affrontare questo punto dolente nella psiche americana. Attualmente, l’approccio più pervasivo è conosciuto come il daltonismo. Il daltonismo è l’ideologia razziale che propone che il modo migliore per porre fine alla discriminazione è di trattare gli individui più equamente possibile, senza distinzione di razza, cultura o etnia.

Al suo valore nominale, il daltonismo sembra una buona cosa – prendendo davvero sul serio MLK sulla sua chiamata a giudicare le persone in merito al loro carattere, piuttosto che il colore della loro pelle. Esso si concentra su punti in comune tra le persone, come la loro comune umanità.

Tuttavia, solo il daltonismo non è sufficiente per guarire le ferite razziali a livello nazionale o personale. E’ solo una mezza misura che, alla fine, funziona come una forma di razzismo.

Problemi con il metodo daltonico

Razzismo? Parole forti, sì, ma guardiamo la questione dritto nel suo occhio parzialmente cieco. In una società daltonica, i bianchi, cui e` improbabile che conoscano svantaggi dovuti alla razza, possono efficacemente ignorare il razzismo nella vita americana, giustificare l’ordine sociale attuale, e si sentono più a loro agio con la loro posizione relativamente privilegiata nella società (Fryberg, 2010). La maggior parte delle minoranze, tuttavia, che incontra regolarmente difficoltà dovute alla razza, vive le ideologie daltoniche in modo diverso. Il daltonismo crea una società che nega loro esperienze negative razziali, rifiuta il loro patrimonio culturale, e invalida le loro prospettive uniche.

Semplifichiamo i termini (e concetti): color – blind = “Le persone di colore – non vediamo (almeno non la parte ‘colorata’ cattiva).” Da persona di colore, mi piace chi sono, e non voglio che nessuna parte di questo venga resa non-visibile [unseen] o invisibile [invisible]. La necessità del daltonismo implica che ci sia qualcosa di vergognoso nel modo in cui Dio mi ha fatta e la cultura dentro la quale sono nata di cui non dobbiamo parlare. Così, il daltonismo ha contribuito a rendere la razza un argomento tabù che le persone educate non possono discutere apertamente. E se non si può parlarne, non si può capirla, tanto meno risolvere i problemi razziali che affliggono la nostra società.

Il daltonismo non è la risposta

Se non si vede, non si può risolvere il problema.
Molti americani vedono il daltonismo come qualcosa di utile per la gente di colore, affermando che la razza non importa (Tarca, 2005). Ma in America, la maggior parte delle minoranze sottorappresentate spieghera’ che la razza importa, poiché riguarda le opportunità, le percezioni, il reddito, e molto altro ancora. Quando sorgono problemi legati alla razza, il daltonismo tende a individualizzare conflitti e lacune, invece di esaminare il quadro più generale, con le differenze culturali, gli stereotipi, e i valori inseriti in un contesto specifico. Invece di derivare da una posizione illuminata (anche se ben intenzionata), il daltonismo deriva da una mancanza di consapevolezza del privilegio razziale conferito dalla “bianchezza” [Whiteness] (Tarca, 2005). I bianchi possono aderirsi senza senso di colpa al daltonismo perché di solito non sono consapevoli di come la razza colpisca le persone di colore e la società americana nel suo complesso.

Colorblindness in un rapporto psicoterapeutico

Come potrebbe causare danni un approcio daltonico? Ecco un esempio che ho vissuto sulla pelle per quelli di voi che sono psicologicamente portati. In un passato non così lontano, in psicoterapia, le osservazioni etniche e razziali di un cliente sono state viste come un modo difensivo per allontanarsi da questioni importanti, e il terapeuta tendeva a interpretare questo come resistenza (Comas-Diaz & Jacobsen, 1991). Tuttavia, un tale approccio impedisce l’esplorazione di conflitti legati alla razza, l’etnia, e la cultura. Il terapeuta non vede l’intero quadro, e il cliente rimane frustrato.

Un approccio daltonico fa effettivamente la stessa cosa. Essere ciechi significa non essere in grado di vedere le cose. Io non voglio essere cieca. Voglio vedere le cose con chiarezza, anche se mi mettono a disagio. Da terapeuta ho bisogno di essere in grado di sentire e “vedere” tutto quello che il mio cliente sta comunicando a molti livelli diversi. Non posso permettermi di essere cieca verso qualsiasi cosa. Vorresti vedere un chirurgo che ha operato con gli occhi bendati? Ovviamente no. Allo stesso modo, un terapeuta non deve essere cieco soprattutto verso qualcosa di così critica come la cultura di una persona o la sua identità razziale. Incoraggiando l’esplorazione di concetti razziali e culturali, il terapeuta può fornire una più autentica opportunità per comprendere e risolvere i problemi del cliente (Comas-Diaz & Jacobsen, 1991).

Tuttavia, ho incontrato molti terapeuti colleghi che si affidano ad una filosofia daltonica. Ignorano la razza o fingono che gli effetti personali, sociali, e storici non esistono. Questo approccio ignora l’esperienza incredibilmente saliente di essere stigmatizzati dalla società e rappresenta un fallimento empatico da parte del terapeuta. Il daltonismo non promuove l’uguaglianza e il rispetto; si limita ad alleviare il terapeuta del suo obbligo di affrontare importanti differenze e difficoltà razziali.

Il multiculturalismo è meglio della cecità

La ricerca ha dimostrato che ascoltare messaggi daltonici prevede esiti negativi tra i bianchi, come maggiore pregiudizi razziali e percezioni negative; allo stesso modo i messaggi daltonici causano stress nelle minoranze etniche, con conseguente diminuzione della performance cognitiva (Holoien et al., 2011). Dato quanto sia in gioco, non possiamo più permetterci di essere ciechi. E’ tempo di cambiamento e di crescita. E’ ora di vedere.

L’alternativa al daltonismo è il multiculturalismo, un’ideologia che riconosce, mette in evidenza, e celebra le differenze etno-razziali. Riconosce che ogni tradizione ha qualcosa di prezioso da offrire. Non ha paura di vedere come gli altri hanno sofferto a causa di conflitto razziale o differenze.

Quindi, come possiamo diventare multiculturale? I seguenti suggerimenti offrirebbero un buon punto partenza (McCabe, 2011):
1. Riconoscere e valorizzare le differenze,
2. L’insegnamento e l’apprendimento delle differenze, e
3. Promuovere amicizie personali e alleanze organizzative

Passare dal daltonismo al multiculturalismo è un processo di cambiamento, e il cambiamento non è mai facile, ma non possiamo permetterci di rimanere uguali.

References

Comas-Diaz, L., and Jacobsen, F. M. (1991). Clinical Ethnocultural Transference and Countertransference in the Therapeutic Dyad. American Journal of Orthopsychiatry, 61(3), 392-402.

Fryberg, S. M. (2010). When the World Is Colorblind, American Indians Are Invisible: A Diversity Science Approach. Psychological Inquiry, 21(2), 115-119.

Holoien, D. S., and Shelton, J. N. (October 2011). You deplete me: The cognitive costs of colorblindness on ethnic minorities. Journal of Experimental Social Psychology, 10.1016/j.jesp.2011.09.010.

McCabe, J. (2011). Doing Multiculturalism: An Interactionist Analysis of the Practices of a Multicultural Sorority. Journal of Contemporary Ethnography, 40 (5), 521-549.

Tarca, K. (2005). Colorblind in Control: The Risks of Resisting Difference Amid Demographic Change. Educational Studies, 38(2), 99-120.

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Sulle adozioni internazionali in Italia: Per slegare la razza dall’etnicità / Transracial Adoptions in Italy: Un-Tying Race from Ethnicity

Cliccare sul link “Poster PDF” per vedere una sintesi della mia ricerca sulla questione della razza nelle adozioni internazionali in Italia / Click on the link “Poster PDF” to see a summary of my research on the question of race in transracial adoptions in Italy [SCROLL DOWN TO THE SECOND SLIDE TO SEE THE ENGLISH VERSION].

POSTER PDF

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GUEST POST: KorEani, korIani, maratone e…chissà by Nam Soon Kim D’Amato [in Italian only]

NSKA

10 novembre 2014 h 23.09…

Potrebbe essere l’inizio di una pagina di un qualsiasi diario privato; una pagina ancora bianca da riempire con le proprie esperienze, sensazioni, sogni, piuttosto che con il semplice resoconto della giornata….o più semplicemente il bisogno, il mio, di fissare con qualcosa di concreto un cambiamento in atto.

E’ un periodo denso di …..TUTTO!!!!!!!

Ho 42 anni e mai come in questo 2014 che volge al termine mi sono sentita viva, felice, confusa, molto felice, triste, disperata, euforica, onnipotente, e si, anche profondamente in crisi: ho sempre saputo di essere un’estremista, nei comportamenti come nei sentimenti, soprattutto in questi ultimi; basta sempre poco per mandarmi in estasi come per farmi sprofondare in stati ansiogeni tali da influenzare chiunque sia nelle mie immediate vicinanze.

Innanzi tutto una premessa doverosa: tra maggio e giugno sono tornata nella mia Korea per la quarta volta, la seconda a poco meno di un anno di distanza da quel famoso Gathering internazionale organizzato da IKAA a cui avevo partecipato insieme a mio figlio Alberto. Stavolta sono partita da sola: quasi tre settimane di full immersion nella cultura koreana, grazie ad un programma molto ben strutturato da Inkas, una delle maggiori organizzazioni del settore che si occupa principalmente di far tornare nella propria “madre patria” quei bambini, ormai adulti, dati in adozione molti anni or sono, per farli “riappropriare” in un certo senso del loro background culturale. A morsi, ovviamente: visite ai principali musei, alle università più prestigiose, ai tipici luoghi di culto, corsi di korean cooking, cerimonia del te, vestizione dell’hanbok, il costume tradizionale koreano, che tutto nasconde e tutte bellissime rende… Quattro viaggi, ogni volta è meglio e peggio allo stesso tempo. Perché è un viaggio dell’anima. Perché ogni volta quando torno a casa –Italia? Korea? Quale sento più casa? –soffro come un cane per almeno due mesi e metto a rischio famiglia, lavoro, amicizie…Sono partita serena, convinta di farmi una bella vacanza, tranquilla nel “lasciare la prole in ottime mani”; “Saranno proprio delle belle ferie…non devo pensare a nulla se non a divertirmi, è tutto organizzato, e poi ormai mi conosco, memore delle precedenti esperienze…ho tutti gli “strumenti necessari per risolvere eventuali crisi…” …Questo il mio pensiero sul volo diretto Korean Air da Zurigo a Incheon\Seoul.

Ebbene….E’ stata una vacanza meravigliosa, forse la più bella della mia vita, perchè ho finalmente, completamente interiorizzato il fatto che non devo massacrarmi il cervello a cercare di capire se mi sento più italiana, più koreana, in che percentuale l’una, in che percentuale l’altra…. Si sa, a parole siamo tutti dei grandi proclamatori, e io sono stata in assoluto la più grande e saccente di tutti: “Si, sono entrambe, italiana e koreana,ed orgogliosa di esserlo, a seconda del contesto, perché è sempre il contesto che fa la differenza”… Verissimo…Peccato però che poi la realtà sia ben diversa. I primi giorni in Korea sono sempre difficili: il primo impatto già sull’aereo, tanti visi asiatici come il mio, nei quali si riflette l’espressione esterefatta di chi si aspetta che gli si risponda in koreano e che invece gli,propina una lingua a lui\lei completamente sconosciuta…tipo dialetto trentino, da un viso e una bocca che DOVREBBE emettere suoni koreani, perché è un viso con tratti somatici tipicamente koreani, ma che di koreano non sa nemmeno 4 parole (tre le ho imparate a forza di sentirle e con l’aiuto di google translator: grazie, buongiorno, destra, sinistra…sono 4 evviva!) . Ma una volta superato l’imbarazzo iniziale e la spiacevole sensazione di “sentirmi diversa” nell’unico posto in cui non avrei dovuto, mi sono come spogliata da ogni condizionamento diventando voracemente affamata nel vivere appieno questa nuova, entusiasmante esperienza: entusiasmante perché è stato fondamentale e “molto consolatorio” per me confrontarmi con altri koreani adottivi provenienti da ogni angolo del pianeta, non solo italiani, e rendermi conto che non ero l’unica mosca bianca a provare certi disagi o soffrire per certi buchi affettivi. Sapere che tutti noi, provenienti da un unico Paese d’origine, ma influenzati inevitabilmente dalle diverse culture dei Pesi diventati d’appartenenza, avessimo come unico denominatore comune il covare più o meno le stesse rabbie, gli stessi rancori nei confronti di qualcosa, più probabilmente qualcuno, aver sopportato gli stessi sberleffi nel corso delle nostre infanzie apparentemente dorate, hanno reso quegli sberleffi meno incisivi (anche se io, personalmente, ho ancora un piccolo tuffo al cuore quando ripenso agli insulti subiti a scuola), e tramutato forse, ribadisco FORSE, la nostra rabbia in un “perché?” urlato a più non posso nell’intimità delle nostre menti e nelle irrazionalità dei nostri cuori. Qualche intenso momento di commozione collettiva c’è stato, senza vergogna, anzi, con una pseudo complicità che ci ha reso consapevoli del fatto che se anche ci si conosceva da poco, era come se avessimo vissuto insieme esperienze comuni, belle, brutte, alcune terribili, ma anche stupende….. Alcune, impossibili da descrivere a parole, indimenticabili: mi viene ancora la pelle d’oca se ripenso al pomeriggio trascorso in uno”Starbucks” in pieno centro a Seoul con Floor, super mamma korean/danese di 4 figli: sarà stata la sua aria molto materna, ma davanti a lei ho versato fiumi e fiumi di lacrime raccontandole la mia storia di figlia adottiva arrivata in Italia all’età di 4 anni suonati e da qualche tempo alla ricerca dei genitori biologici o di un qualsiasi membro della famiglia originaria: quasi tutti , prima o poi, compiono questo passo, non so se sia giusto dire “per chiudere il cerchio”….mi verrebbe da dire per capire (un po’) chi siamo, perché noi siamo, anche, il risultato del nostro passato, oltre che del nostro vissuto. C’è chi arriva a questa decisione prima, chi dopo, chi non ci arriva mai. Io ad esempio nel 2000, quando ho pedalato per più di 1600 km in bicicletta per tutta la Korea del sud, non ero ancora pronta: trovato l’orfanotrofio, l’unico dato in mio possesso era il mio Case Number; detto fatto, il mio fascicolo trovato manualmente in un megaschedario (manualmente, non so perché, ma questa cosa mi fa impazzire, stiamo parlando della Korea, uno dei Paesi più avanzati a livello tecnologico), consegnatomi direttamente dall’allora direttore della Holt Children’s Service. Avevo appena assistito in diretta alla “consegna di una creatura” di pochissimi mesi, forse 3, ad una coppia americana e…..ho avuto paura. Non so di cosa. Forse di buttare ulteriore sofferenza gratuita su uno stato d’animo già scompensato di suo. Il mio fascicolo è rimasto sul tavolo. Sono stata codarda. Ho preferito non sapere. Inutile dire che quella decisione mi ha perseguitata per tutti gli anni a venire…. Fino a quando, diventando madre a mia volta, e “riscattandomi” in un certo senso nei confronti della vita, della mia madre biologica (io figlia abbandonata, sarò invece in grado di crescere i miei figli con tutto l’amore del mondo, MAI preso in considerazione l’idea dell’adozione, nel modo più assoluto), quel sordo rancore pronto a manifestarsi paradossalmente in forme estreme nelle occasioni più disparate, ha subito una lenta metamorfosi fino a trasformarsi in semplice curiosità, almeno all’inizio…Banalmente: mi somiglierà? Tutti mi dicono che Alberto e Stefano sono il mio ritratto sputato: sarà così anche per me e Lei ? Da chi avrò preso sto cavolo di naso che occupa tutto lo spazio delle fototessere sui documenti? E questa struttura massiccia che nemmeno se perdo 10 kg sembrerò mai magra? Cose così, insomma.. Penso che invece la verità sia un’altra: ho sognato spesso questa scena. Una semplice parola, occhi negli occhi: perché? Sapere la risposta, qualunque essa sia, metterebbe finalmente la parola fine ad anni di possibili ed impossibili congetture da parte della mia mente folle pronta ad inventarsi le scusanti più nobili per giustificare questo gesto estremo dell’abbandono: anche se non ho ricordi consci dei miei primi anni di vita, sono convinta di essere stata pesantemente condizionata nel corso della mia esistenza dall’enorme buco affettivo causato dall’abbandono. Tutto l’amore del mondo non sarebbe stato sufficiente per colmare questo vuoto. E molto serenamente, senza voler fare gratuitamente la vittima e senza volere assolutamente piangermi addosso, posso dire di essere stata molto fortunata ad avere incontrato alcune persone che ”hanno giocato un ruolo fondamentale” nel mio processo di rinascita. E siccome nulla capita per caso, ma a volte anche si, in questa trasformazione ha giocato un ruolo fondamentale l’ACCETTAZIONE che mi ha spinta a conoscere i “miei simili” ed entrare a far parte dell’associazione KORIA (da qui koriani), e quella che è diventata una passione vera: la corsa, ed in particolare la distanza della maratona. Amo correre e ogni tanto mettermi alla prova in qualche gara prestigiosa perché ritengo che rappresenti appieno la metafora della vita: la maratona, come la vita, esige rispetto, come la vita richiede sacrificio e dedizione, se ti alleni duramente il pb sa di buono e come recita lo slogan di un famoso brand sportivo,”a volte arrivare 814 esimo ti fa sentire come se fossi arrivato primo” se quell’814 esimo posto è frutto di passione e impegno. Amo la sofferenza fisica che comporta correre per 42 km e 195 metri, perché, una volta superata, come le sfighe della vita, mi fa sentire caratterialmente più forte, pronta ad affrontare qualsiasi cosa o quasi. Qualche settimana fa, in occasione dell’ultima maratona di Venezia a cui ho preso parte, ho avuto la fortuna sfacciata di “conoscere” Alex Zanardi, un grande atleta ma soprattutto un uomo immenso che ha saputo reinventarsi attraverso la disgrazia di cui è stato vittima. Di lui mi ha colpito profondamente l’estrema semplicità ed umiltà proprie dei campioni veri, di sport e vita, oltre al carisma straordinario che emana. Lui afferma spesso che l’incidente pauroso che gli è costato entrambe le gambe, gli ha offerto l’OCCASIONE per diventare quello che è oggi…..Zanardi, con la sua storia, è un bellissimo esempio di riscatto umano: è forse presuntuoso da parte mia identificarmi in un mito come Alex e pensare che il mio abbandono, l’adozione, parlarne su questo blog, semplicemente parlarne, possano costituire la MIA OCCASIONE per essere una Kim migliore, per una vita finalmente piena d’amore (i miei figli), piena di passioni, amicizie vere e……CHISSA’?

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Cosa vuol dire diventare mamma per un’adottiva? / What does it mean for an adoptee to become a mother?

[As always, scroll down past the asterisks to see the English version]

Frequenterò il secondo meeting annuale sull’adozione organizzato dal Gruppo Adottivi Adulti CIAI [per informazioni sull’evento cliccare qui. Se non vi siete ancora iscritti, c’è ancora tempo. Basta compilare il modulo d’iscrizione]. La partecipazione a tale incontro è un’opportunità importante che ho atteso dalla conclusione di quello precedente. Al di fuori delle reti sociali e di altri gruppi on-line, questo è l’evento principale in cui ho la possibilità di stabilire e rafforzare i rapporti con altri adottivi internazionali italiani, partecipare a discussioni significative sul tema dell’adozione, ed essere sempre più coinvolta nella comunità italiana di adozione. Il programma offre 3 diversi “workshops” e quello che ho scelto si concentra sulla scelta del partner e la prospettiva della genitorialità nel contesto del proprio abbandono: “La propria storia adottiva: la condivisione nella coppia e nella genitorialità: Quanto l’ esperienza dell’abbandono influisce nella scelta del partner e nel progetto di genitorialità”. Io non ho intenzione di affrontare qui il tema di come il mio abbandono possa avere influenzato la mia scelta del partner, invece vorrei discutere che cosa significa per me in quanto adottiva diventare madre.

La maternità ha innescato una sorta di dissociazione che mi ha permesso di guardare una me-come-orfana attraverso gli occhi di una me-come- madre e tramite questa fantasiosa depersonalizzazione intergenerazionale è venuta una realizzazione più chiara delle implicazioni di essere adottata. Ovviamente ho sempre saputo che sono stata adottata, che ho trascorso alcuni mesi in un orfanotrofio, e che i miei genitori biologici non erano più i miei genitori, sia perché ero indesiderata o perché loro/lei è morta. Ma mi mancava la maturità intellettuale per affrontare concretamente il significato di questa realtà, di andare oltre il senso immediato delle parole, e di aprirmi alla reazione emotiva che si potrebbe avere in queste circostanze. La verità è che tutte le emozioni pertinenti alla mia situazione sono state archiviate o sepolte; ma certamente non eliminate. Quando sono diventata mamma la mia capacità di empatia e la profondità del mio sentimentalismo emotivo sono aumentate in modo esponenziale. Ogni qualvolta che i miei figli cadevano e predevano notevoli bernoccoli e lividi sulla fronte o ferite sulle ginocchia sentivo dentro di me il loro dolore. E quando sono stati abbastanza fortunati da evitare infortuni peggiori come una ferita ad un occhio quello che, tempo fa, acccadde al mio primogenito quando si ferì a pochi millimetri dal suo occhio, ho pensato ossessivamente a ciò che sarebbe potuto succedere e ogni volta il mio corpo reagiva con angoscia. L’espressione di queste emozioni non si è limitata ai miei figli. Quando sono andata a vedere Slumdog Millionaire – uno dei primi film che ho visto dopo la nascita di mio figlio – sono quasi uscita dal cinema dopo 15 minuti perché la vita tortuosa dei bambini era troppo dolorosa da guardare; spesso smetto di guardare un programma televisivo se ne è protagonista un bambino che soffre o che muore; ma peggio di tutto, qualsiasi reportage sulla morte o sul trauma subito da bambini mi perseguita per giorni e notti. E così quando ho cominciato a riflettere sulla realtà di bambini abbandonati che trascorrono alcuni mesi o la maggior parte della loro infanzia/adolescenza in un orfanotrofio il mio cuore si spezzò. So quello che devono aver provato, non perché mi ricordo com’era – ero troppo giovane – ma perché ho ​​ripetutamente assistito a vari gradi di paura dell’abbandono nelle lacrime inconsolabili dei miei figli quando li accompagnavo in asilo nido o quando uscivo per passare una serata con gli amici. Ma nel caso dei miei figli sapevo che, salvo eventuali imprevisti tragici, mi avrebbero rivista di nuovo. L’orfano invece no. Lui o lei aspetterà invano, perché nessuno – NESSUNO – tornerà a riprenderseli. Adottarli, forse, ma recuperarli, no. L’io-come-madre ha sentito dentro di sé la tragedia dell’abbandono, ma con la maturità emotiva che mancava da tanto tempo.

Ma non vedevo soltanto una me-come-orfana attraverso gli occhi di una me-come-madre, ma anche una me-come-madre attraverso gli occhi di una me-come-orfana. Mi sono vista sforzarmi per bilanciare la mia vita professionale con quella di madre. Mi sono vista diventare sempre più stanca, ansiosa ma soprattutto frustrata. Frustrata perché non riuscivo a realizzare tutto quello che avevo bisogno di realizzare; frustrata perché ho sempre così poco tempo da dedicare a me stessa e alle cose che non hanno niente a che vedere con i miei figli; frustrata perché la casa è sempre in disordine; frustrata perché il mio udito sta peggiorando per causa delle urla laceranti che emettono quotidianamente i bambini; frustrata per aver lavorato a preparare una buona cena per poi vederla rifiutata da entrambi i figli; frustrata perché mi sono fatta male alla mia schiena più volte portando i figli in braccio; frustrata perché, invece di prepararsi al mattino, i miei figli scappano via, nudi, senza un boccone di colazione nelle loro pance brontolanti. Ma per quanto frustrata fossi, sapevo che avevo la fortuna di avere la capacità intellettuale, i mezzi finanziari, una stabilità emotiva relativa o almeno sufficiente, e una rete di sostegno per superare ogni ostacolo (un superamento aiutato dal fatto che la mia frustrazione era facilmente allentato dai loro affascinanti sorrisi e le loro dichiarazioni frequenti che mi volevano “così tanto tanto tanto” bene, “più dell’universo” per l’appunto). Sapevo anche che ci sono tanti genitori che sono molto meno fortunati di me non avendo nessun tipo di privilegio da cui trarre beneficio, privilegi che spesso do per scontato. Mi era chiaro che se trovavo la genitorialità impegnativo, pur avendo tutti i privilegi della classe media, non potevo pretendere di immaginare quanto potesse essere difficile diventare genitore per chi fosse terribilmente svantaggiato da ostacoli insormontabili. L’orfano in me guardò la mamma frustrata e pensò a tutte quelle madri che semplicemente non potevano. E per questo l’ho perdonata soprattutto perché in quanto mamma ho la possibilità di riscrivere il mio passato con il futuro dei miei figli, che mi porta alla mia terza realizzazione.

La terza realizzazione che ho fatto quando sono diventata madre è quella relativa alla genealogia dell’adottato. Dal momento che molti di noi, me compresa, non abbiamo informazioni sui nostri genitori biologici e le loro famiglie, il nostro lignaggio, in un certo senso, inizia con noi. Tutto quello che viene prima è sconosciuto, un enorme punto interrogativo senza risposta. Eppure, con la nascita dei nostri figli, il nostro lignaggio non è solo esteso, i bambini stessi, come portatori dei geni dei nostri antenati, diventano una superficie riflettente sulla quale è specchiata la nostra storia genealogica. In altre parole, l’invisibilità e l’intangibilità del nostro passato sono rese visibili e tangibili dalla nostra futura progenie. Naturalmente, quando guardo i miei figli, non posso identificare alcuna caratteristica percepibile che possa essere assegnata a un padre biologico o a una prozia biologica. Ma l’insieme genetico dei miei figli è determinato, almeno in una certa misura, dalla composizione genetica dei miei avi e quindi da qualche parte all’interno della doppia elica del DNA si trova una storia ancora da raccontare. L’immagine che allegorizza il rapporto tra madre e figlio nel contesto di ascendenza e discendenza che mi viene in mente è quella dell’adottato situato tra due specchi. Lo specchio dietro di lei riflette il passato, ma perché lo specchio è dietro la sua schiena non può vedere l’immagine, rimane a lei sconosciuta. Inserendo un secondo specchio di fronte a lei, l’adottato vede l’immagine di se stessa (in senso figurato quell’immagine è quella del suo futuro come i nostri bambini sono spesso percepiti come riproduzioni di noi stessi), ma vede anche il riflesso della parte posteriore del suo corpo specchiato nello specchio posizionato dietro di lei (metaforicamente parlando, il suo passato), reso visibile dallo specchio posto di fronte. In altre parole, per via dei due specchi e la loro funzione riflessiva, all’ignoto (la mia schiena/il mio passato) è dato forma e significato attraverso il conosciuto (la superficie riflettente sulla quale viene proiettata la mia parte “anteriore”/il mio futuro). Perché questi sono specchi, il gioco di riflessi è infinito, dove sia la parte posteriore/passato che la parte “anteriore”/futuro si rispecchiano e si riproducono all’infinito. Pertanto, pur non avendo alcuna conoscenza dell’ascendenza genealogica che ci precede, la nostra futura progenie, in maniera forse fantastica, dà forma alla nostra discendenza genealogica.

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I am attending the second annual meeting on adoption organized by the Gruppo Adottivi Adulti CIAI [for information on the event click here]. Participating in such a meeting is an exciting opportunity, one that I have been looking forward to since the conclusion of the previous one. Outside of social networks and other online groups, this is the primary event during which I have the possibility of establishing and reinforcing relations with other Italian transnational adoptees, engaging in meaningful discussions on the topic of adoption, and becoming more involved in the Italian adoption community. The program offers 3 different discussion groups and the one I chose focuses on romantic relations and the prospect of parenthood in the context of one’s abandonment. “La propria storia adottiva: la condivisione nella coppia e nella genitorialità: Quanto l’esperienza dell’abbandono influisce nella scelta del partner e nel progetto di genitorialità?” I am not going to address here the topic of how, if at all, my abandonment has influenced my choice of partner, however, I will discuss what it means for me as an adoptee to become a mother.

Motherhood triggered a kind of dissociation that allowed me look at myself-as-orphan through the eyes of myself-as-mother and through this imaginative intergenerational depersonalization came a clearer realization of the implications of being adopted. Obviously I have known all along that I was adopted, that I spent a few months in an orphanage, and that my biological parents were no longer my parents either because I was unwanted or because they/she died. But I lacked the intellectual maturity to truly confront the meaning of this reality, to go beyond the immediate significance of the words, and to open myself up to the emotional response one might have under those circumstances. The truth of the matter is that all the emotions pertinent to my situation were shelved or buried; although definitely not eliminated. When I became a mother my ability to empathize and the depth of my emotional sentimentality increased exponentially. Whenever my children had accidents that led to substantial bumps and bruises on their foreheads or gashes on their knees I felt deep within me the pain they were experiencing. And when they were lucky enough to narrowly avoid a worse fate like an injury to an eye such as the time my eldest fell and cut himself a few millimeters from his eye, I thought obsessively about what could have happened and each time my body reacted with angst. The expression of these emotions was not limited to my children. When I went to see Slumdog Millionaire – one of the first movies I saw after my first son was born – I nearly walked out of the theater after 15 minutes because the torturous life of the little children was too painful to watch; I often stop watching a TV show if it portrays a child suffering or dying; but worst of all, any news report on the death or traumatizing of children haunts me for days and nights. And so when I began to reflect on the reality of abandoned children spending a few months or most of their childhood/adolescence in an orphanage my heart broke. I know what they must have felt, not because I remember what it was like – I was far too young – but because I repeatedly witnessed varying degrees of fear of abandonment in my kids’ inconsolable tears when I would drop them off at daycare or when I left for an evening out with friends. But in the case of my children I knew that, barring any unforeseen tragedies, they would see me again. And again. And again. The orphan on the other hand will not. He or she will wait in vain because nobody – NOBODY – will come back to reclaim them. Adopt them, perhaps, but reclaim them, no. I-as-mother therefore felt deep inside the tragedy of abandonment, but with the kind of emotional maturity I lacked for so long.

But I didn’t just see myself-as-orphan through the eyes of myself-as-mother. I also saw myself-as-mother through the eyes of myself-as-orphan. I saw myself struggling to balance my professional life with my life as a mother. I saw myself grow increasingly tired, anxious but most of all frustrated. Frustrated because I couldn’t accomplish everything I needed to accomplish; frustrated because I always have such limited time to devote to myself or things unrelated to my children; frustrated because our house is in a constant state of disarray; frustrated because my hearing is being challenged by piercing screams on a daily basis; frustrated because of the time spend in order to make a tasty dinner only to have it rejected by both kids; frustrated because I hurt my back multiple times carrying our kids; frustrated because the kids, instead of getting ready in the morning, would run away from me, naked, without a spoonful of breakfast in their grumbling tummies. But even in all my frustration I knew that I was lucky enough to have the intellectual capacity, the financial means, a relative or at least sufficient emotional stability, and a network of support to overcome any parenting obstacle (it helped that my frustration was easily defused by their charming smiles and their frequent declarations that they love me “so so so much” “more than the universe” in fact). I also knew that there are many parents who do not benefit from any of the kinds of privileges I often take for granted. So I realized that if I found parenting challenging while being surrounded by my middle class privilege, then I can’t presume to imagine what it must be like to face parenthood when one is anchored down by insurmountable hardships. The orphan in me looked at the struggling mother and thought about all those other mothers who simply couldn’t. And for that I forgave her especially because as a mother I have the luxury of rewriting my past through the future of my children which brings me to my third realization.

The third realization I made when I became a mother is one relative to an adoptee’s genealogical lineage. Since many of us, myself included, have no information about our biological parents and their families, our lineage, in a sense, begins with us. Everything before us is unknown, a huge unanswered question mark. And yet, with the birth of our children, our lineage is not only extended, the children themselves, as carriers of the genes of our ancestors, become a reflective surface on which is replicated/mirrored our genealogical history. In other words, the invisibility and intangibility of our past ancestry are rendered visible and tangible by our future progeny. Of course when I look at my sons I cannot identify any discernable trait that can be assigned to a biological father or a biological great aunt. But my sons’ genetic make-up is determined, at least to a certain degree, by their genetic composition and therefore somewhere within the double helix of their DNA lays an untold story. The imagery that allegorizes the relationship between mother and children in the context of ancestry and lineage that comes to mind is that of the adoptee standing between two mirrors. The mirror behind her carries the past, but because her back is facing it she cannot see it, it remains unknown to her. By placing a second mirror in front of her, the adoptee sees an image of herself (figuratively speaking that image is that of her future as our children are often perceived as reproductions of ourselves) but also sees the reflection of the back of her body reflected back to her through the mirror placed behind her (figuratively speaking her past) but made visible by the mirror placed in front. In other words, by virtue of the two mirrors and their reflective function the unknown (my back/my past) is given shape and meaning through the known (the reflective surface on which is projected my front/my future). Because these are mirrors, the game of reflections is an infinite one, where both the back/past and the front/future are mirrored and reproduced infinitely. Therefore, while having no knowledge of the genealogical lineage that precedes us, our future progeny in a perhaps fantastic manner, gives shape to our genealogical ancestry.

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Citazione 2 (l’identità dell’autore rimarrà anonima) / Quotation 2 (the identity of the author will remain anonymous)

In realtà non ho mai trovato qualcuno che capisse l’adozione, cioè è un tema talmente, come posso dire, che tocca un po’ tutta la mia vita, tocca un po’ tutti, le tue relazioni. È sempre possibile spiegare un pezzettino piccolo a tutti, no? Però c’è sempre una parte che non riesci a spiegare, cioè non sai come, non puoi spiegare l’abbandono, lo sradicamento dal tuo paese di origine, l’essere cresciuto con tutti che ti guardavano in maniera stranita, con tutti che ti guardavano come per dire “ma quello …”, col fatto di avere l’esperienza di essere l’unico nella scuola, nel tuo paese ad essere adottato. Come si fa a spiegare una roba del genere a una persona che ha sempre vissuto una vita normale, tranquilla. Non ci sono dei termini, delle parole che vanno bene, che possono esprimere proprio tutto. È complicato. Non penso che si riesca nemmeno a spiegare l’adozione ai propri genitori quindi puoi immaginare quanto sia complicato spiegarla a una persona con cui hai un rapporto meno familiare, come a un amico o a un’amica. Quindi sicuramente la mia futura fidanzata, non mi interessa se sia adottata o meno, di colore, o bianca, se mi innamoro di una donna mi innamoro di una donna poi si vedrà. Però farò di tutto, mi sforzerò fino all’inverosimile per cercare di spiegarle l’adozione, in maniera sana e positiva, ovvio, almeno per aver la sicurezza e la tranquillità che lei sappia che io sto bene. L’adozione, sì, ci ha sgambettato, lo dico sempre, siamo sgambettati dalla vita, poi sta a noi decidere se camminare con la testa dritta, gobbi o a camminare sui gomiti.

 

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In reality I never found anybody who understood adoption, in other words it’s a subject so, how can I say, that concerns a bit my entire life, it concerns a bit everybody, your relationships. It’s always possible to explain a little piece to everybody, right? But there is always a part that you cannot explain, that is, you don’t know how, you can’t explain the abandonment, the uprooting from your country of origin, the fact of growing up with everybody who looked at you in bewilderment, with everybody who looked at you as if to say “but that one…”, with the fact of having experienced being the only one in your school, in your town to have been adopted. How can one explain such a thing to a person who has always lived a normal and peaceful life. There aren’t terms, words that work, that can express everything. It’s complicated. I don’t think it’s even possible to explain adoption to one’s parents, therefore you can imagine how complicated it is to explain it to a person with whom you have less of a familiar relationship, like a female or male friend. Therefore, certainly, my future girlfriend, I’m not interested if she is adopted or not, a person of color or white, if I fall in love with a woman, I fall in love with a woman, then we shall see. But I will do everything, I will force myself beyond all limits to try to explain adoption to her, in a healthy and positive way, obviously, at least to have the certainty and the tranquility that she knows that I’m ok. Adoption, it is true, tripped us up, I always say it, we have been tripped up by life, but then it’s up to us to walk with our heads held high, hunched over, or dragging along on our elbows.

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Citazione 1 (l’identità dell’autore rimarrà anonima) / Quotation 1 (the identity of the author will remain anonymous)

Essere adottata ha influenzato in qualche modo il significato della parola famiglia?

No. E la prova è stata in seconda elementare: ho vinto il primo premio in tutta la scuola per il disegno che ho fatto e se ci penso è quasi un po’ blasfemo però c’era questa madonna coreana incinta e la mia spiegazione a questo era stata che il seme del mio papà era arrivato in Corea e che quindi io sarei stata io, no matter what. E quindi, insomma, non lo so, direi che è abbastanza chiaro il messaggio: Io dovevo essere la figlia. Ero, sono stata la pre-scelta, sarei stata io comunque. Questa è stata una grande gioia per mia mamma.

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Did being adopted influence in any way the meaning of the word family?

No. And the proof was in second grade: I won first prize in the entire school for a drawing that I did, and when I think about it, it was nearly a bit blasphemous. There was this pregnant Korean Madonna and my explanation for this was that my father’s seed arrived in Korea, and therefore I would have been me, no matter what. And therefore, I don’t know, I would say that the message was quite clear: I had to be the daughter. I was, I had been the chosen one, it would have me regardless. This made my mother very happy.

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GUEST POST BY JONGPIL MARTINOTTI: “Piccolo resoconto del mio incontro con il gruppo KOR.I.A.” (In Italian only)

Jongpil Martinotti

[KOR.I.A.– Associazione Koreani Italiani Adottivi]

il 16 marzo

… Sono andato all’ incontro con mio papà, gliel’ho chiesto perché pensavo che sarebbe stato carino fare qualcosa insieme … dopo qualche chiacchiere arriviamo alla chiesa evangelica coreana … cerchiamo il salone … con aria un po’ di stranieri e mentre sentivo ed avvertivo pensavo ma guarda un po’ che mi sento straniero qui …!!!!.. interessante … poi capisco come tutte le cose nuove sono sempre un po’ straniere e io ho un po’ la coda di paglia … credevo che questo sentimento si fosse assopito … invece … comprendo che quel mondo coreano si riuniva e si isolava, e chi arrivava lì … portava con sé la propria solitudine ed erano lì per non sentirsi soli e diversi quindi uniti si sentivano protetti … Entriamo, papà subito si defila dicendomi che è una cosa nostra …??????????… intuisco che è rispetto nei nostri confronti … e non timidezza o il non desiderio di influenzare o invadere lo spazio della discussione che avremmo dovuto affrontare … qualche timido saluto … e benvenuto e si inizia con le procedure … organizzative … dopo i risultati … l’argomento di forum … (beh mi ero preparato un discorso una scaletta) … ma capisco che ero lì ad ascoltare e capire me stesso attraverso gli altri … la domanda … principale spontanea: “quali sono state le motivazioni per cui volete tornare in korea” … dopo alcuni scambi tra tutti del gruppo, emerge subito l’amore che questi ragazzi provano per la korea … ne rimango affascinato … molto più vivace … la discussione successiva “se l’adozione internazionale … debba accogliere anche le famiglie che vogliono adottare che non sono etero” … la discussione si è fatta bella e accesa ed emerge, e lo sento in modo molto vivo … che tutti alla fine difendono una libertà d’amore … e non di bandiera e di appartenenza … sociale … (qui credo che sia un punto cruciale) … alcuni dei ragazzi mi hanno spiegato … perché desiderano tornare alle loro origini … al di là della motivazione ma mi interessava non le parole ma i loro sentimenti con i miei … c’era Rabbia, Amore, Curiosità, un ‘Opportunità … di vita … nuova … ma nessuno di loro fuggiva … dal proprio dolore/amore … con coraggio e determinazione affrontano il futuro … Belllisssimo … ma tra 4 chiacchiere la fame morde … quindi ci spostiamo al ristorante … per continuare la condivisione di una bellissima giornata … e magia il tempo si ferma e tutto scorre ogni parola è un conforto per l’altro o una domanda … e spesso una risposta per tutti …!!!!!!!!…

concludo dicendo … CREDO CHE NON CI SIA NIENTE AL MONDO COME LA CONDIVISONE … DELL’AMORE … E IL RISPETTO … E PER GUARIRE LE FERITE O ALIMENTARE LE GIOIE BASTA CONDIVIDERLE … ECCO COSA MI HA INSEGNATO QUESTO INCONTRO … GRAZIE RAGAZZI, GRAZIE PAPÀ!!!!!

Pubblicato con il permesso di Jongpil Martinotti

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Pensieri su “Philomena” and il significato della ricerca di una madre per trovare il figlio / Thoughts on “Philomena” and the Meaning of a Mother’s Quest to find her Son (For the English version scroll down past the asterisks)

Rendendomi conto di aver visto pochissimi film non animati sul tema degli orfani, ho deciso di unirmi ad un’amica – madre di figli adottivi – e andare al cinema locale a guardare Philomena con Judi Dench e Steve Coogan. È stato un bellissimo film e sono felice che sia stato candidato a quattro premi Oscar, incluso miglior film e miglior attrice protagonista. Ma il post di oggi non è una recensione del film, quanto piuttosto una riflessione sulla madre naturale che il film ha ispirato. Mentre ero sdraiata a letto quella notte tardi, pensavo a come l’orfano è una figura letteraria comune e come la sua articolazione è stata così pervasiva nel tessuto narrativo dei nostri “testi” (e con “testo” intendo qualsiasi forma di rappresentazione, non solo il testo scritto). Riflettevo su alcune delle figure di orfano che popolano solo la nostra cultura dell’infanzia occidentale, anglo americana – in fiabe, racconti popolari e favole abbiamo scoperto personaggi come Cenerentola, Biancaneve e Mowgli; nei classici letterari abbiamo incontrato Huckleberry Finn, Oliver Twist e Pip; i fumetti ci hanno dato supereroi come Bruce Wayne, Clark Kent e Peter Parker; e non dimentichiamo la nostra amata Annie dell’omonimo musical; e naturalmente Harry Potter di J K Rowling, solo per nominarne alcuni di una lista straordinariamente lunga. Perciò, leggendo i libri o guardando l’adattamento cinematografico siamo stati esposti al tema della perdita dei genitori da un’età molto giovane.
Naturalmente una delle ragioni primarie per eliminare i genitori è consentire al protagonista di raggiungere un livello di maturità accettabile – anche se socialmente costruita – che può, presumibilmente, venire solo percorrendo da soli il cammino insidioso verso l’età adulta (lascerò da parte ogni commento significativo sui percorsi estremamente di “genere” [gender] che elevano, per così dire, il protagonista maschile all’autorealizzazione e all’azione, mentre la protagonista femminile è lasciata come voce passiva per essere salvata e portata nel regno dell’età adulta dal suo salvatore e soprattutto futuro marito). In altre parole l’orfano serve davvero come un espediente letterario, un simbolo dell’impegno per la crescita personale, il suo è il tipico racconto di formazione. Perciò è assolutamente necessario che almeno uno, se non entrambi i genitori biologici siano sacrificabili. La loro unica funzione è solo quella di dar vita all’orfano, dopo di che devono, senza mezzi termini e senza spazio per le negoziazioni, rinunciare alla propria vita. La tragedia dell’eliminazione dei genitori biologici è spesso e troppo facilmente sminuita dall’avvincente storia dell’iter del giovane orfano che, per lo più, ne emerge trionfante raggiungendo la sua piena maturazione (sua di lui e in una certa misura anche se fortemente non-femminista, sua di lei). Così in un certo senso il giovane e malleabile pubblico, che capisce il patto implicito, impara ad accettare il destino dei genitori.
Ma nel mondo reale, l’essere orfano non è limitato alla morte dei genitori del bambino. Infatti nella maggior parte dei casi i bambini diventano orfani quando i genitori biologici rinunciano a loro volontariamente o perché costretti. Le ragioni di un genitore per rinunciare ad un figlio sono numerose: la giovanissima età della madre biologica; l’incapacità di crescere un figlio a causa di circostanze socio-economiche estreme; una gravidanza derivante da uno stupro; la salute mentale e fisica della madre biologica o dei genitori biologici; la dipendenza da droghe e alcool della madre biologica o dei genitori biologici; un rifiuto sociale e culturale della ragazza madre single; la mancanza di educazione e di informazione in materia di misure di prevenzione e delle possibili soluzioni; la condizione fisica del neonato; egoismo; l’ “altra opzione” all’aborto; e così via. Perciò in molti casi i genitori biologici possono benissimo essere ancora vivi.
Ciò che ho apprezzato molto di Philomena è che era incentrato sul punto di vista della madre biologica, sui suoi sforzi instancabili per cercare il figlio e il suo amore incondizionato per un bambino che non vedeva da quando lei era un’adolescente. A me, almeno, una tale prospettiva sembrava insolita, poiché conosco di più la ricerca degli adottati dei loro genitori biologici piuttosto che il contrario. In molti casi, al momento di rinunciare ai loro figli, le madri biologiche non solo rinunciano ai loro diritti verso il figlio, ma scelgono anche di mantenere la loro identità segreta o sconosciuta, rendendo praticamente impossibile la loro ricerca, specialmente nel caso di adozioni internazionali. Inoltre, in molti Paesi come l’Italia, l’opzione di un’adozione aperta non esiste. Il genitore biologico quindi, per sua scelta o a causa degli ostacoli giuridici previsti dai procedimenti adottivi, è ancora una volta una figura assente, ridotta a mera fantasia costruita dall’adottato. Questa assenza è preoccupante ed emotivamente faticosa per gli adottati che hanno avuto difficoltà a riconciliarsi con il loro stato di orfani e ha ispirato esaustive e costose ricerche attraverso molteplici mezzi, così come appelli per il riconoscimento attraverso programmi televisivi e social network. Ma il più delle volte questa ricerca non riesce a trovare un genitore biologico, lasciando l’adottato pesantemente deluso, frustrato e persino depresso. Ciò che rende Philomena potenzialmente interessante è che introduce una narrazione diversa e molto più desiderabile, almeno dal punto di vista dell’adottato che ha sofferto il suo abbandono “originale”: la ricerca del figlio da parte della madre biologica. E’ la madre che spende tempo e risorse per riattaccare il filo spezzato che li ha divisi decenni prima. La madre, la Mamma, il cui “lavoro” è prendersi cura di te, amarti e nutrirti, venirti a cercare quando ti perdi e non lasciarti andare mai, perché l’amore di una madre è infinito e incrollabile. La madre biologica non è più il Male, una che ti ha dato via perché era troppo difficile prendersi cura di te, che ti ha messo in un orfanotrofio invece che nel tuo letto, a casa tua, sotto il tuo tetto. Lei, a quanto pare, non ha mai smesso di amarti e di cercarti. Perciò trascorrere un paio d’ore in presenza del personaggio di Philomena (non dimentichiamoci che è basato sulla storia di una madre vera), le cui lotte e sofferenze erano così vividamente leggibili nelle linee del viso che hanno segnato il passare del tempo (grazie all’ottima performance di Judi Dench), dà all’adottato la possibilità di fantasticare su una narrazione di abbandono che non ha avuto origine dalla madre biologica, di crogiolarsi nelle emozioni dell’amore di una madre per un figlio che le è stato portato via a tradimento e di riconoscere la possibilità che la madre biologica possa anche essere alla ricerca di suo figlio.
Non mi è chiaro che tipo di persone attiri questo film (o libro) e chi è andato a vederlo all’interno della comunità legata all’adozione: i genitori adottivi (o più specificamente le madri adottive)? Gli adottati? Le madri biologiche? Ma sarei curiosa di saperlo e di sapere perché.

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Realizing that I have seen very few non-animated films on the topic of orphans, I decided to join a friend – a mother of adopted children – and head over to our local movie theater to watch Philomena with Judi Dench and Steve Coogan. It was a wonderful film and I am glad it was nominated for four Academy Awards, including Best Motion Picture and Best Performance by an Actress in a Leading Role. But today’s post is not a review of the film, but rather a reflection on the birthmother that the film inspired.
While I was lying in bed later that night, I thought about how the Orphan is such a common literary figure and how its articulation has been so pervasively woven into the narrative fabric of our ‘texts’ (and by ‘text’ I mean any form of representation, not just the written text). I mused over some of the orphan-figures populating our Western, Anglo-American childhood culture alone – in Fairy Tales, Folktales and Fables we discovered characters such as Cinderella, Snow White, and Mowgli; in literary classics we met Huckleberry Finn, Oliver Twist, and Pip; comic books gave us superheroes such as Bruce Wayne, Clark Kent and Peter Parker; and let’s not forget our beloved Annie from the eponymous musical; and, of course, J K Rowling’s Harry Potter, just to name a very few from an extraordinarily long list. And therefore, whether we read the books or watched their cinematic adaptation, we have been exposed to the motif of parental loss from a very young age.
Of course one of the primary reasons for eliminating the parents is to enable the protagonist to reach an acceptable – though socially constructed – level of maturity that can, supposedly, only come from navigating alone the treacherous pathways towards adulthood (I will leave aside any meaningful commentary on the highly gendered routes, that elevate, so to speak, the male protagonist to self-realization and agency, while the female protagonist is left in the passive voice to be saved and brought into the realm of adulthood by her savior and more importantly her future husband). In other words, the orphan really serves as a literary trope; a symbol for one’s striving for personal growth, his is the quintessential coming of age story. And so it is of absolute necessity that at least one if not both birthparents be expendable. Their sole function is merely to give life to the orphan after which they must, under no uncertain terms and with no wriggle room for negotiations, give up their own lives. The tragedy of the elimination of the birthparents is frequently and all too easily undermined by the captivating story of the iter of the young orphan who, for the most part, emerges triumphantly, reaching his (and to a certain though highly un-feminist degree, hers) full maturation. And so in a sense the young and malleable audience, who understands the implicit pact, learns to accept the fate of the parents.
But in the real world, orphandom is not limited to the death of the child’s parents. In fact in the majority of the cases, children become orphans when their birthparents willingly or are forced to renounce them. A parent’s reasons for giving up a child are numerous: the very young age of the birthmother; the inability to raise a child due to extreme socio-economic circumstances; a rape resulting in pregnancy; the mental and physical health of the birthmother/birthparents; the birthmother/birthparents’ addiction to drugs and alcohol; a social and cultural rejection of the single, unwed mother; the lack of education and information regarding preventative measures and possible solutions; the physical condition of the newborn; egotism; the ‘other option’ to abortion; and so forth. And therefore in many cases, the birthparents may very well still be alive.
What I very much enjoyed about Philomena was that it was centered on the perspective of the birthmother, her indefatigable efforts to search for her son and her unwavering love for a child that she had not seen since she was a teenager. To me, at least, such a perspective felt uncommon as I am much more familiar with the adoptees’ search for their birthparents rather than the inverse. In many cases, at the time of giving up their children, the birthmothers not only signed away their rights to the child but also elected to keep their identity sealed or unknown, making a search for them practically impossible, especially in the cases of international adoptions. Moreover, in several countries such as Italy, the option for an open adoption does not exist. The birthparent, then, either through her choice or through the legal obstacles set forth by the processes of adoption, is once again an absent figure, reduced to a mere fantasy constructed by the adoptee. This absence has been highly troubling and emotionally taxing for adoptees who have had difficulty reconciling with their orphaned state, inspiring exhaustive and costly searches through multiple mediums as well as appeals for recognition via TV programs and social networks. But more often than not, this search fails to reveal a biological parent leaving the adoptee heavily disappointed, frustrated, and even depressed. What makes Philomena potentially attractive is that it introduces a different and much more desirable narrative, at least from the perspective of the adoptee who suffered from his/her ‘original’ abandonment: the birthmother’s search for her son. It is the mother who is spending her time and her resources to reconnect the broken thread that tore them apart decades ago. The mother, the Mother, whose ‘job’ is to care and love and nurture you, to come looking for you when you get lost, and to never ever let you go, because a mother’s love is infinite and unwavering. The birthmother is no longer the Evil one who gave you up because it was too difficult to take care of you, who put you in an orphanage instead of in your bed, in your home, under your roof. She, it turns out, never stopped loving you and never stopped looking for you. And therefore spending a couple of hours in the presence of the character Philomena (let’s not forget that she is based on a real life mother), whose struggles and pain were so vividly legible in the facial lines that marked the passing of time (thanks to the excellent performance of Judi Dench), gives the adoptee the opportunity to fantasize about a narrative of abandonment that did not originate with the birthmother, to bask in the emotions of a mother’s love for a son who was treacherously taken away from her, and to acknowledge the possibility that the birthmother may also be searching for her child.
It’s not clear to me what kind of demographic this film (or book) attracted, and who within the adoption-related community went to see it: the adoptive parents (or more specifically the adoptive mothers)? the adoptees? the birthmothers? But I would be curious to know, and to know why.

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GUEST POST BY VASANTH ARMANDO: “Giusto perché ogni tanto mi guardo allo specchio e mi ricordo chi sono.” (In Italian only)

vasanth

20 July 2011 at 01:26

Si sono fatte montagne di studi e statistiche per cercare di circoscrivere l’adozione internazionale, statisticamente il 20% dei bambini adottati soffrono di depressione, siamo più portati ad aver problemi di natura psicologica, etcc….
Personalmente, ritengo semplicemente che siamo stati “sgambettati” dalla vita e pertanto siamo più sensibili; cresciamo tendenzialmente con la necessità di avere maggiore sicurezza dall’ambiente circostante, in primis famiglia e amici.
Noi figli della vita (Kahil Gibran , Il profeta,) che dobbiamo trovare in noi la forza di sopportare il dissidio che ci pone dinnanzi la società moderna, con i suoi episodi razzisti e di continua incertezza sul futuro.
Noi che nasciamo da una donna e veniamo cresciuti da un’altra, a cui diamo il nome di madre, e crescendo ci accorgiamo di essere più simili alla seconda che alla prima.
Io che mi alzo la mattina mi guardo allo specchio e vedo riflessi due occhi neri come il carbone e una pelle color cioccolato fondente, poi aprendo l’album fotografico di quand’ero piccolo noto che i miei occhi sorridenti hanno lo stesso riflesso di quelli di mio padre.
Noi che sembriamo stranieri eppure siamo romani, napoletani e milanesi, noi che rendiamo variegato il paesaggio che si staglia tra la folla che canta orgoglioso l’inno di Mameli.
Noi che indossiamo la maglia azzurra della nazionale, che con i colori ambrati della nostra pelle fa quasi ridere, noi che siamo cresciuti pensando che essere “ di colore” fosse il massimo; io da piccolo rimorchiavo tutte le biondine…..
Noi che dobbiamo prima far pace con noi stessi e poi con il mondo perché non è il mondo ad essere cattivo, ma siamo noi che non riusciamo a coglierne le bellezze.
Noi che per conoscere il nostro passato dobbiamo aspettare il venticinquesimo anno di età ed essere giudicati idonei da un giudice, come se uno sconosciuto potesse decidere sui nostri diritti.
Personalmente ritengo che questa norma sia inadeguata , sarebbe maggiormente costruttivo che l’accesso ai documenti sulla propria adozione, fossero preceduti da un percorso psicoterapeutico a lungo termine che accerti, assieme alla partecipazione dei famigliari, “l’impossibilità”, indipendentemente dall’esito, di eventuali accumuli eccessivi di stress per l’adottato e lo accompagni ad assimilare in maniera positiva le notizie riportate nei documenti.
E sopratutto che l’obbiettivo del percorso psicoterapeutico sia indirizzato alla preparazione all’accesso ai documenti e non alla mera constatazione che vi siano i requisiti minimi.
Personalmente mi stupisco dinnanzi alle persone che dichiarano di non voler conoscere il proprio passato, ritengo che il conoscere il proprio passato oltre ad essere un diritto sia un atto di riconoscenza per la persona che fu costretta a lasciarci, con questo non voglio dire che sia necessario un ricongiungimento con la propria madre biologica, bensì perlomeno fare lo sforzo per riuscire a darle un volto e un nome.
Sono conscio che ognuno ha il pieno diritto di fare le sue scelte, ma se penso a quante volte ho guardato i miei amici, e ho riconosciuto in loro alcune caratteristiche fisiognomiche dei genitori, guardo i miei occhi domandandomi se anche i miei fratelli li hanno dello stesso colore.
Rido pensando che a dodici anni le suorine del mio orfanotrofio mi hanno costretto a cantare “I believe I can fly” di R. Kelly stonato come sono, ero imbarazzatissimo, eppure quel luogo in qualche modo lo sento come casa, il mio cuore se chiudevo gli occhi si placava dinnanzi al mare, alle aquilette e i corvi che oscuravano il cielo arso dal sole che sovrastava quelle terre rosso sangue, cinte ad est dall’Oceano Indiano e ad ovest dai Ghati Occidentali.
Noi ragazzi dai mille colori uniti da un sottile filo che ci accomuna, noi che forse siamo troppo sensibili e dobbiamo imparare e conoscerci, noi che durante l’adolescenza ne combiniamo di tutti i colori cercando di conformarci alla società mettendo le minigonne o le scarpe appena uscite da Footlocker, noi che non smetteremo mai di aver fiducia nei nostri amici, sempre pronti ad ascoltarli.
Noi figli di operai, attori, dottori o professori universitari, noi che ricordiamo al nostro paese che il futuro che ci attende è insito nella diversità e che noi, figli vostri, siamo il futuro multicolore che vi attende.
Pertanto sorridete quando un bambino vi sorride, guardatelo bene negli occhi, poiché indipendentemente dal colore della pelle e dai lineamenti, essi non vi tradiranno, ricordandovi che in lui è insito il futuro anche dei vostri figli.
Ai miei futuri figli sicuramente racconterò la storia di un bambino adottato, che ivi riporto integralmente, nella speranza che possa colmare i loro dubbi sul significato dell’adozione scaldandogli il cuore.
Storia di un Bambino Adottato
C’erano due donne
che non si erano mai conosciute;
una non la ricordi,
l’altra la chiami mamma.
La prima ti ha dato la vita,
la seconda ti ha insegnato a viverla.
La prima ti ha creato
il bisogno d’amore,
la seconda era li per soddisfarlo.
Una ti ha dato la nazionalità
l’altra il nome.
Una il seme della crescita,
l’altra uno scopo.
Una ti ha creato emozioni,
l’altra ha colmato le tue paure.
Una ha visto il tuo primo sorriso,
l’altra ti ha asciugato le lacrime.
Una ti ha lasciato,
era tutto quello che poteva fare.
L’altra pregava per un bambino
e il Signore l’ha condotta a te.
E ora mi chiedi la perenne domanda:
eredità o ambiente,
da chi sono plasmato?
Da nessuno dei due,
solo da due diversi amori.
— Maria Teresa di Calcutta

Pubblicato con il permesso di Vasanth Armando

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COME VIVONO I NOSTRI FIGLI LA NOSTRA DOPPIA IDENTITA’ – GUEST POST by Nam Soon Kim D’Amato (in Italian only)

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Da qualche settimana si sono chiusi i giochi olimpici invernali di Sochi 2014 e, da appassionata sportiva quale sono, ho cercato di seguirli il più possibile, compatibilmente con gli orari di lavoro e sottoponendo tutta la mia famiglia ad una visione forzata delle varie gare; inutile dire che la disciplina che ho seguito con maggior coinvolgimento è stata quella del pattinaggio artistico, da sempre espressione di grazia suprema, leggiadria e potenza atletica ai massimi livelli: quante di noi, oggi donne adulte, non si sono identificate almeno una volta nei loro volteggi o per lo meno avrebbero voluto poter emulare le loro incredibili gesta a suon di trottole, doppi axel e tripli tooel lup? E quante di noi non hanno letteralmente “sbavato” alla vista dei loro splendidi costumi, dei loro fisici perfetti plasmati da anni ed anni di duro allenamento?

Nella gara femminile, quando è stato chiaro che il podio sarebbe stato una corsa tra l’italiana Carolina Kostner, la russa Sotnikova e la coreana Yuna Kim, mi sono ritrovata sul divano con il cuore che batteva all’impazzata per un tifo assordante nel silenzio del mio cuore nei confronti della coreana…E negli eterni minuti del suo free program mi sono resa conto, una volta in più, del mio essere “coreana inside”, senza forzature, nel mio io più profondo: a costo di attirarmi le ire di tante persone, posso affermare che se la Kostner avesse vinto o meno una medaglia, per me non avrebbe fatto una grande differenza…eppure sono italiana! Ovviamente sono contenta che si sia portata a casa il bronzo, ma sono stata in lutto per giorni oltre che scandalizzata per l’oro mancato/defraudato della mia “omonima”…Una volta in più ho realizzato che non basta la parola “italiana” sui documenti dove viene richiesta la nazionalità per sentirsi tali…certo, io sono italiana al 100% per quanto riguarda tutta una serie di componenti che spaziano da usi, costumi, cibo, mentalità, insomma, tutto quel background plasmato da un’intera vita vissuta in un determinato contesto socio-culturale…..però sono anche e , mi vien da dire soprattutto visto gli ultimi sviluppi, COREANA, ed orgogliosissima di esserlo, anche se non da  moltissimo tempo: infatti fino a non molto tempo fa, vivevo la mia doppia identità e il mio essere diversa da tutti e uguale a nessun altro in modo molto conflittuale. Non è molto che accetto il mio essere coreana adottata in Italia serenamente, e non è molto che ritengo il nostro doppio io un valore aggiunto…evidentemente però sono molto convincente in questa mia nuova dimensione, tanto che, più o meno inconsciamente, credo di aver influenzato anche i miei due figli, Alberto 11 anni, e Stefano, 6.

“Mamma mamma, ma noi per chi tifiamo? Per la coreana, vero?”!!??!? Neanche gli avessi puntato contro un’arma….nei loro sguardi ho colto per un attimo una domanda inespressa, quasi il timore che se avessero sostenuto la Carolina nazionale l’ira di mamma Nam Soon si sarebbe manifestata in tutta la sua grandezza.

“Mamma guarda, la bandiera coreana!!!”

Possibile che li abbia influenzati fino a tal punto? Possibile che ogni volta che si parla di Korea in tv o che un qualsiasi riferimento alla mia terra d’origine fa capolino in qualche contesto, loro saltano su come delle molle? Tra l’altro è un periodo che la Korea è spesso sotto la luce dei riflettori: le prossime Olimpiadi si terranno in terra coreana, la Samsung continua a sfornare gioiellini tecnologici, Seul è riconosciuta come nuova meta turistica d’eccellenza… Alberto e Stefano sono ITALIANI, sono nati entrambi a Trento, parlano il dialetto trentino meglio di chiunque altro, accento compreso, il loro papà è italianissimo fino al midollo, eppure….. essendo “sangue misto”, ovviamente hanno ereditato da me (gene dominante) una forte componente orientale nei loro tratti, anche se non così esasperati: ad esempio i loro occhi sono molto più aperti dei miei, e dotati di ciglia incredibilmente lunghe, curve e folte (la mia invidia dato che le mie sono praticamente inesistenti, corte, rade e spioventi…); entrambi alla nascita presentavano a livello lombare la famosa macchia mongolica, tipica della popolazione orientale discendente da Gengis Kahn….ma le analogie finiscono qui: entrambi avrebbero, per esempio, grossissime difficoltà con il cibo tipico coreano, con Alberto ne ho avuto la certezza l’estate scorsa quando abbiamo condiviso un viaggio stupendo a Seul: praticamente lui è andato avanti a hamburger e patatine, io non ne avevo mai abbastanza di kimchi, bimbap e topogee, nel loro tripudio di aglio e peperoncino. Gli effetti di quel viaggio si fanno ancora sentire, sia per me che per Alberto: noto con piacere che anche a distanza di mesi ormai, ogni occasione è buona perché mio figlio nomini la Korea, e pure con un certo orgoglio…di questo posso solo essere felice, poiché il dubbio che per lui fosse troppo presto affrontare un viaggio simile mi ha assalito più di una volta: capirà perché per sua madre è così importante tornare nella sua terra d’origine? E perché vuole farlo proprio con lui che più di una volta è stato deriso e beffeggiato per via del suo aspetto esotico pur essendo nato italiano ma con una minima parte di sangue e dna coreano? In famiglia non abbiamo mai calcato troppo la mano sulla mia condizione di figlia adottiva, di etnia straniera, anche se ovviamente alle loro domande abbiamo sempre cercato di rispondere il più onestamente e “a misura di bambino” possibile: direi che è stato un processo quanto mai graduale quanto fisiologico e naturale: “Mamma, ma la nonna è la tua mamma anche se non ha gli occhi come i tuoi, ma la tua mamma in Korea li ha di sicuro uguali !!” Alberto poi è di una sensibilità e maturità non indifferente: ricordo la sua reazione durante una discussione con un caro amico coreano adottato al nostro rientro in Italia; di fronte alla meraviglia permeata di rancore a sua volta travestito da falsa indifferenza del mio amico alla notizia che avevo cercato in tutti i modi di risalire al contatto materno originario (“Io non capisco questa smania di cercare a tutti i costi i genitori biologici, cosa ti cambia alla fine, quando una famiglia tua ce l’hai, i tuoi genitori sono quelli che ti hanno cresciuto ecc. ecc”), questa la sua risposta: ”Ma come cosa ti cambia? TUTTO. Per me che so di essere “figlio tuo fin dalla nascita” è un po’ scontato, ma se fossi al posto della mamma credo che anch’io sarei quantomeno curioso di sapere se almeno mi assomiglia”…Meraviglioso Alberto.

Ho sempre cercato di convincere i miei figli del valore della diversità, in ogni sua forma, e avendo in casa una realtà di disabilità direi che sotto questo punto di vista sono ampiamente svezzati…anche se non è sempre facile e scontato far capire loro che distinguersi dalla massa, togliersi dal famoso gregge, premia sempre, soprattutto alla loro età dove sembra che se non hai lo smartphone di ultima generazione e se non sei vestito in un certo modo non conti nulla. Amo pensare che i miei figli abbiano già in un certo senso “le spalle larghe”, proprio in virtù del fatto che respirano “diversità” praticamente da quando sono nati. Ammetto che non è sempre così facile e scontato: ricordo perfettamente il mio stato d’animo di qualche mese fa quando Stefano, al rientro da scuola mi confessò di essere stato preso in giro sullo scuolabus da un gruppo di compagni (quest’anno è in prima elementare e, con la maggior parte di essi, ha condiviso tutti gli anni della scuola materna): al momento non diedi gran peso alla cosa, visto che mi sembrava abbastanza sereno, ma all’arrivo di Alberto che aveva evidentemente assistito a parte della scena (la scuola media e la scuola elementare sono praticamente attaccate) la verità venne a galla.
“Mamma, ma cosa è successo stamattina a Stefano? L’ho visto smontare dallo scuolabus in lacrime disperato, paonazzo, che cercava a tutti i costi la sua insegnate”.

A quel punto Stefano non negò più, e ammise: “Ma si mamma, mi hanno preso in giro sul pulmino, ma io ho fatto come mi hai sempre detto tu. L’ho detto alla maestra, che ha messo una nota sul diario a tutti.” Si sa che i bambini, nella loro innocenza, sanno essere di una crudeltà feroce, soprattutto quando fanno clan, io stessa l’ho sperimentato sulla mia pelle quando avevo la stessa età di mio figlio…E così mi sono ritrovata a pensare: possibile che in 40 anni non sia cambiato niente? Possibile che la storia debba ripetersi, che anche i miei figli debbano subire le stesse “pressioni psicologiche” che ho subito io nella mia infanzia? Pensare questo e rivivere come un flash una scena tratta dal film “FORREST GUMP” dove lui bambino viene deriso e sbeffeggiato sullo scuolabus, pianificare in un nanosecondo una “spedizione punitiva” nei confronti di questi bambini e delle loro famiglie colpevoli, ai miei occhi , del peccato più grave per ogni mamma di questo mondo (guai a chi tocca mio figlio!) è stato un tutt’uno. Fortunatamente Maurizio compensa sempre la mia parte più focosa ed istintiva e sa sistematicamente come fare per annullare gli effetti del kamikaze che c’è in me. Una volta tranquillizzata, cercai di spiegare a Stefano che a volte si viene presi in giro anche per delle stupidaggini, tipo essere troppo grassi, o troppo magri, o portare gli occhiali, e che alla fine essere derisi per essere dei cinesini di merda, o musi gialli , può essere meno peggio di tante altre cose…un po’ debole come spiegazione, ma al momento, il mio cervello già ampiamente provato, non fu in grado di imbastire niente di meglio.  “E comunque mamma, io gli ho detto che non sono cinese ma COREANO!! Pensa che non sanno neanche dov’è la Korea sulla cartina geografica, saranno ignoranti!!  Io invece lo so, me l’ha fatto vedere Alberto quando siete tornati da Seul, adesso faccio vedere anche a te”..Detto fatto, andò a prendere il mappamondo e con sicurezza indicò con l’indice il punto esatto. Meraviglioso Stefano.

Da quel giorno non mi sento più tanto in colpa quando enfatizzo il fatto di essere coreana e di aver trasmesso loro, anche se in minima parte, un po’ di sangue coreano: loro mi sembrano orgogliosi di esserlo, e questo non può che farmi piacere. Se questo può aiutarli a renderli più forti e consapevoli, ben venga. Io ci ho messo quasi 40 anni per capirlo, loro sono già sulla buona strada. Io nel mio intimo ringrazio segretamente PSY per il suo successo planetario, la Samsung per le sue innovazioni tecnologiche, la Yuna Kim per le sue performance sportive: anche se può sembrare assurdo queste eccellenze hanno contribuito in modo determinante a far sentire i miei figli orgogliosi di “essere coreani come loro”. A questo proposito ringrazio anche uno degli insegnanti di Stefano che qualche giorno dopo il “fattaccio”, poco prima delle feste natalizie, fece ballare tutta la classe di mio figlio sulla musica del “ Gangnam style” di PSY: “Bambini, sapete chi è questo signore che canta? E’ PSY (ovviamente tutti lo sapevano) ed è coreano, proprio come Stefano!!!” Mio figlio quel giorno è tornato a casa finalmente sereno, dopo essersi scatenato a ballare sulle note di quel celeberrimo pezzo. Meraviglioso maestro Antonio.

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